“In caduta libera”

di Cristina Maria Lora

La porta si chiude, il controllo dei medici è terminato, volgo il mio sguardo verso l’albero che ombreggia la mia finestra. Lo osservo interrotto dalla cannula della flebo che, in uno stillicidio lento, idrata il mio corpo. Sfiorano le mie dita la sacca sorretta dalla spranga del letto mentre drena quel che rimane in me dell’intervento chirurgico.

Dicono che sia andato tutto bene.

Per qualche ora il mondo si era fatto assente, forse per l’effetto dell’anestesia, che mi aveva astenuta dall’essere presente in quel taglia e cuci funzionale a riposizionare l’intestino là dove doveva stare.

Chiudo gli occhi in questa rivincita dei miei 17 anni. Un numero nemico della scaramanzia. Non per me!

Ho voglia di piangere, ma oramai anche le lacrime se ne sono andate con quei tre anni che avevano anticipato questo giorno, ibernando il mio slancio per la vita.

Ritorno con la mia mente in quel bagno della scuola.

Nel panico, sudavo. La paura parlava attraverso la mia pelle. Che cosa mi stava accadendo? Ero confusa, non capivo! Non comprendevo il perché di quel sangue sulle mani. Non capivo il perché di quella parte di intestino che fuoriusciva dal mio corpo. Mi feci forza, per quanta poca me ne restasse, riportai quel pezzo a penzoloni di me al suo posto. Era un ultimatum che il mio corpo, ridotto ai minimi termini, mi stava lanciando.

Avevo 14 anni quando, tenace e testarda, decisi di sopprimere quella parte di me che stava diventando donna.

Non li volevo quei seni, seppur minuti.

Non mi appartenevano quei fianchi, leggermente rotondi.

Non ero abituata a loro.

Non sarebbe stato così difficile smussarli. Rinunciare a qualche caloria non sarebbe stata una tragedia.

Mi impegnai. Eccome!

Fu una sfida divertente all’inizio, un gioco appagante leggere quelle etichette che additavano quanto stavo ingrassando.

La leggerezza iniziale cedette via via il posto alla debolezza complessiva.

Le generose colazioni a base di una prosperosa tazza di latte e golosi biscotti furono sostituite da un bicchiere “sporco” di latte ed un quarto di biscotto rigorosamente dietetico.

Il pranzo nutriva amorevolmente la pattumiera ed era pure facile smaltirlo così, visto che nessuno mangiava con me al rientro da scuola.

Quanto alla cena, la scusa del mangiar leggero per dormire bene era un ottimo alibi per rinunciarvi, o quasi.

Quanto al dormire, mangiavo così poco che rimanevo sveglia per la fame, che mi ostinavo a zittire.

I giorni passavano, le mie forme si spegnevano. Era una sfida sempre più irrinunciabile, la caduta vertiginosa di quei numeri segnati sul quaderno dove, immancabilmente, registravo le mie pesate quotidiane. Era una soddisfazione immensa scorrere quei giorni sul diario contrassegnati dai chili al ribasso … 50, 49, 48 … 38, 37 … 34, 33, 32!

Arrivai esattamente ad ammirare i miei 32 chili, nella prepotenza della mia mente che impediva al mio stomaco di riempirsi e che ormai era così rattrappito da non riuscirci più, vomitando qualunque cosa la mia bocca tentasse di propinargli.

Ero felice, soddisfatta. O pensavo di esserlo, fino a quel giorno, nei bagni della scuola, quando mi fu presentato il conto più salato di quella anoressia della quale, ancora, non ammettevo di essere schiava.

Un prolasso intestinale!

Il mio intestino aveva ceduto. Sfondato. In caduta libera! Accompagnato da un’emorragia, dapprima lieve, poi sempre più abbondante.

Dovevo uscire da quel bagno. Dovevo ritornare in classe.

Mi lavai il viso. Afferrai una salvietta per asciugare acqua e lacrime.

Per la prima volta, dopo mesi, le lacrime ripulirono i miei occhi, anziché appannare la vista. Vidi i solchi che marcavano i miei zigomi, che scavavano le mie guance. Il mio aspetto era poco più rosato del grigiume di quel cranio che mi guardava ogni volta che passavo davanti all’aula di scienze.

Le mie mani erano vecchie. I miei vestiti si perdevano tra le anse del mio corpo.

Mi tremavano le gambe, non mi sorreggevano più.

Forse per la debolezza, forse per la tensione.

Ricominciai a piangere. Tutto attorno a me girava. Ma proprio tutto! Bevvi un sorso d’acqua. Aggrappandomi a quel po’ di orgoglio che mi rimaneva ritornai al mio posto. Nessuno si accorse di nulla, del mio viso scarno, dei miei occhi infossati e arrossati per il pianto. Nessuno ci fece caso. O forse, ero io che, per la prima volta, mi stavo rendendo conto di quanto avevo azzerato la mia esistenza.

Ritornai a casa, cercai di mangiare qualcosa. Come se quel “qualcosa” risolvesse ogni problema. Dopo pochi bocconi il mio stomaco si ribellò. Corsi in quel maledetto bagno, dove con soddisfazione, ma non questa volta, andavo spesso a vomitare.

Ero nel panico.

Ero sola.

Andai in camera mia.

Mi sedetti alla scrivania. Dovevo studiare. Non riuscivo a concentrarmi. Non riuscivo ad accettare che non rimaneva più nulla dentro di me.

Azzardai una serie di esercizi di ginnastica. Bastarono due flessioni per farmi capire che ero al capolinea. Non riuscivo a reggermi. Né in piedi, né seduta. Mi ritrovai stesa a terra in un attimo. Ero dentro ad un vortice. Mi mancava l’aria. Mi mancavano le parole.

Mi mancava quella vita che mi stava girando tutta attorno, trascinandomi in un turbine di ricordi. Ricordi che stavo dimenticando, rinnegando, rifuggendo. I miei pattini. La mia chitarra. I cioccolatini di Massimo. Le lettere di Andrea. Le risate, le mie risate sature di esistere. Quella paresi perenne sul viso che, tra candore di denti e occhi strizzati, in un sorriso spaccava il mondo!

Ora la mia paresi era altra cosa. Era apatia.

La smorfia sulle labbra si era fatta dolore.

Fissavo le punte dei miei piedi, ossa nude come tutto il resto del mio corpo, che non riuscivano più a riconoscere la musica e gli applausi del pubblico. Il mio body rosso era là, dove lo avevo lasciato dopo l’ultima gara, assieme ai pattini che, rinchiusi nella sacca, anelavano le mie gambe.

Guardai le mie mani mentre chiamavano le corde della chitarra; che più non si riconoscevano in quegli arpeggi abortiti tra l’ovatta che soffocava le mie orecchie.

Non riuscivo a muovermi, sudavo, a fatica piangevo lacrime insipide, prive di sale.

La porta si aprì.

Era papà. Aspettava quel momento, da tanti giorni.

Che succede? – mi chiese, ben sapendo cosa stava accadendo.

Sto male papà. Non riesco a respirare. Non riesco a muovermi. Non riesco a piangere – risposi con l’ultimo filo di voce che mi rimaneva in gola.

Arrivò anche mamma. Si inginocchiò accanto a me. Mi riempì di carezze colme di compassione.

Piangeva. In silenzio, piangeva.

Papà mi raccolse da terra con la forza del vento. Mi caricò sulle sue spalle come quando ero bambina e mi portò lassù su quella cima che amavo.

Era un giorno d’inverno.

A fatica ci arrivammo. Lui sapeva che quei boschi, quei sentieri, quella gente buona e laboriosa con la quale amavo parlare delle stagioni erano l’ossigeno che mi serviva per ricominciare a sentire dentro di me il sapore della vita.

Ero seduta sul nostro sasso, mio e di papà, quando tornai a sentire il freddo buono della neve che entrava nelle mie scarpe. Quando il vento mi ricordò la sua dolcezza appoggiata alle guance.

Papà mi porse del tè caldo, dal profumo di limone, di api, di ricordi felici. Riassaporai l’umido delle lacrime che sagomavano la magrezza delle mie guance.

Piansi. Dopo tanto, troppo tempo, piansi per davvero. Non ricordavo più il gusto del salmastro che usciva dagli occhi per fermarsi sulle labbra.

Papà mi abbracciò. Pianse con me.

Papà ti prego, aiutami. Aiutami a non morire. Voglio tornare quassù a sentire la neve, che mi bagna i capelli, che mi entra nelle calze, che mi fa gocciolare il naso e lacrimare gli occhi. Voglio annusare il selvatico dei prati. Voglio graffiarmi le mani tra gli appigli delle rocce per sbirciare il nido di un’aquila – singhiozzavo.

Il sole tramontò anche su quel giorno, su quegli infiniti giorni nei quali avevo scritto tre anni lunghi, così intensi quanto vuoti, della mia vita.

Fu l’inizio di una lunga e faticosa salita verso quello che, questa volta, non era un sentiero di montagna. Era la risalita della mia vita. La fuga dall’apatia che aveva messo radici nella mia mente. La fuga dalla morte che si stava portando via l’ultima povertà delle mie ossa.

Lo specchio mi chiamava ogni giorno, ma il suo richiamo si faceva sempre più lontano. La bilancia mi attendeva, ma stavolta in risalita.

Rimaneva quel diario di bordo sulle cui pagine dovevo trovare la forza di scrivere, senza resa, numeri in decollo.

Fu difficile per la mia mano mettere con inchiostro su carta quel peso al rialzo. Fu una violenza per la mia mente accettare la consapevolezza di quei vestiti che, lenti lenti, riprendevano forma.

Furono i pattini riallacciati ai miei piedi e la loro ritrovata libertà nei volteggi tra le note, dentro a quel body rosso, a ricordarmi di me.

Fu la musica impastata dalla forza delle mie dita a ricordarmi la forza delle emozioni.

Furono i cioccolatini di Massimo a ricordarmi il sapore di un bacio acerbo tra il rossore di un lento.

Fu quella paresi che ritornò a risvegliare i miei sorrisi a ricordarmi il giallo del sole.

Mi rimaneva ancora un capitolo da chiudere nel mio racconto di adolescente anoressica. Il capitolo iniziato dentro a quel bagno della scuola.

Ed eccomi qui, in questo giorno di giugno, a smaltire l’anestesia di questo intervento del quale scrissi le premesse negli anni che lo avevano preceduto. Un capitolo, ora, chiuso da una lunga cicatrice.

Riapro gli occhi.

Ascolto l’albero fuori dalla finestra cullato dalle note dell’estate che sta per arrivare. Sento l’eco del mio sorriso che tra le pareti di una camera d’ospedale rimbalza, restituendomi il rumore della vita.

***

Se vuoi leggere altri componimenti relativi a questa Silloge, clicca sul link: Silloge #Ombra

In caduta libera – Cristina Maria Lora – (Concorso Letterario #Ombra) – Lettera32 il Blog
“In caduta libera”
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Un pensiero su ““In caduta libera”

  • Marzo 7, 2022 alle 11:38 am
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    Conosco da poco Cristina Lora ma ho avuto modo di apprezzare il suo modo di scrivere: diretto, sincero, senza fronzoli, a volte crudo. Cristina scrve da poco e e fa notevoli sacrifici per ritagliarsi un po’ di tempo da dedicare alla poesia e al racconto breve. Si è fatta già notare in non pochi Concorsi Letterari, conseguendo importanti risultati. Altri, ne sono certo, ne verranno nell’immediato futuro. Dotata di talento e di ferrea volontà, è, a mio parere, una bravissima scrittrice..

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