“Du hast”

di Patrizia Birtolo

La commessa le sorrideva, gentile.
Fa parte del suo lavoro, pensò lei.
C’era una quantità imbarazzante di boccette colorate, sul ripiano di cristallo nero dell’elegante bancone.
E quella continuava a sorriderle, imperterrita.
Speranzosa.
Impossibile, con tutto quello che aveva chiesto di mostrarle, che non comprasse niente. Talmente sicura che domandò a bruciapelo:

“Ha già un’idea oppure vuole…”

Si stava facendo impaziente.
Lei non sopportava le venisse fatta fretta.
Voleva dire che in quel posto il gioco s’era concluso.

“Sì, li prendo tutti. Devo fare qualche regalo.”

La ragazza sussultò, poi si accinse tutta soddisfatta a preparare le confezioni.

Almeno nei casi in cui dipendeva solo da lei, voleva prendersi tutto.

Aspettò che incartasse pacchetto per pacchetto.
Consegnò la carta di credito. Aspettò di nuovo che la macchinetta sputasse fuori il ricciolo della ricevuta. Firmò, afferrò il sacchettino lucido dai piccoli manici di corda, salutò e uscì.

L’aria era gelida e dura come un cristallo.
Le vetrine scintillavano suadenti.

Un altro negozio.

Un’altra commessa dal sorriso gentile.
Un’altra breve recita del desiderio da inscenare: anziché profumi, raffinati completini intimi.
La ragazza cominciò a sciorinare un reggiseno dietro l’altro, uno slip dietro l’altro.
Pizzi delicati come ricami di neve, soffici come zucchero filato.
L’eleganza del nero, il candore del bianco, minute fantasie a fiori e tinte pastello occhieggiavano digradando, tono su tono, dai cassetti aperti e richiusi.
Quanta roba, troppa roba.
Non si divertiva, se c’era da concentrarsi troppo.
Anzi, iniziava ad annoiarsi.

“Vuole provare qualcosa?”

“Questi due.”

Ne indicò un paio a caso fra quelli disposti sul banco.
Si diresse verso lo spogliatoio, tolse tutto e li indossò.
Non ce n’era bisogno, a lei stava bene qualunque cosa.
Ma doveva comportarsi come una cliente qualsiasi. E le clienti provano prima di acquistare.

“Come va?”

“MALE!” voleva urlarle, invece scostò la tendina e s’affacciò, un sorriso soave.

“Oh, benissimo.”

S’era già rivestita.
Riavvicinandosi al banco, lo sguardo s’impigliò su altri capi.
La taglia la sua, i colori all’ultima moda.

“Prendo i due che ho provato e gli altri che mi ha fatto vedere.”

“Tutti?” chiese la ragazza quasi sgomenta.

“Tutti. Di questo, questo e questo può farmi un pacchetto regalo?”

“Certo!”

Non era vero che le servissero confezioni regalo.
Far finta di avere regali da fare sotto Natale la faceva sentire un po’ meno vuota.
Le piaceva far credere di avere delle amiche.
Ma così bella, era difficile avere amiche.
Per giunta c’era il suo pessimo carattere.
Quindi: nessun’amica, ben pochi amici.
A ogni modo qualche pacchetto poteva davvero riciclarlo, con un po’ di fortuna.
La commessa le fece cassa.
Dopo la solita firmetta e il salutino con sorriso prestampato, afferrò il sacchetto rigido, nero e oro, e affrontò di nuovo il freddo di quel tardo pomeriggio invernale.

Dove poteva andare adesso?


C’era l’abbigliamento, un filone nemmeno intaccato.
Il negozio di scarpe, quello di borse, la gioielleria e i libri – non le piacevano i libri, ma non poteva saltarli, erano un classico natalizio.
Ultimamente c’erano persino negozi specializzati in cosmetici per il trucco.
Là sì che si sentiva a proprio agio.
Le piaceva ascoltare i suggerimenti delle commesse, anche se ne sapeva più di loro, e intanto far scivolare lo sguardo sugli ombretti allineati con meticolosità da colorificio.
Quei negozi erano un pantano insidioso di prove su prove: era questo il grosso vantaggio.
Le ragazze non davano segni di stanchezza o insofferenza, tutt’altro: sembravano liete che si trattenesse a lungo.
Con quei prodotti economici, avrebbe potuto fare regali a persone che lavoravano per lei e intorno a lei.
Gli staff pullulavano di ragazze convinte che, un bastoncino di rossetto o un tubetto di mascara, passati dalle sue mani, trattenessero qualche proprietà magica da trasmettere loro di conseguenza.
Un briciolo, un riflesso anche vago di quella che veniva considerata la Vera Bellezza…

Due ore dopo era stremata.

Con l’ultimo carico di pacchi e pacchetti s’avviò all’auto.
Era già tornata più volte alla macchina per disfarsi degli acquisti gettandoli nel bagagliaio, così da procedere di nuovo libera e spedita.
Almeno il tempo era passato.
Ogni volta a Milano era così.
Ogni volta che tornava a Milano pensava a lui, sempre di più.

Milano.

La classica città che, quando sei su, ti fa andare a mille, ma quando sei giù…
Nessun’altra riusciva a farla sentire ancora più giù.
Lo sapeva bene, di città ne girava anche troppe.
Ora era abbastanza importante da scegliere con chi lavorare.
Cercava di evitare per quanto possibile di lavorare con lui, che rientrava in una delle due categorie di uomini con cui era destinata a imbattersi.
I fotografi, e i cretini alle feste.
I cretini, festaioli e non, la sfiancavano.

L’altra cosa estenuante era il braccio di ferro con la tentazione di chiamarlo.
Ogni volta che era in quella città, la voglia si acuiva.
Resisteva, ci riusciva sempre, ma doveva tenersi occupata per non pensarci.
L’unica cosa che sapeva fare oltre a posare era comprare. Perciò comprava.

Mentre stava girando l’angolo quasi inciampò nella custodia aperta di un violino.
Un artista di strada seduto per terra, la schiena poggiata allo spigolo del muro, la guardò.
Lei provò un senso di vergogna.
Estrasse dalla borsa firmata il portafoglio, lasciò cadere nella custodia una banconota da venti. Il ragazzo la guardò interdetto, gli occhi spalancati in cerca di spiegazione.

Tu non lo sai, ma fra simili ci si dovrebbe aiutare, no?
Alla fin fine, credimi, noi due siamo fratelli.
Anch’io so cosa vuol dire elemosinare – ascolto, attenzioni, amore, telefonate, sguardi – e tendere la mano e non ricevere.
So cosa vuol dire sentirsi sporchi, e rifiutati e miserabili, a dispetto di ogni apparenza.

Ma le apparenze ingannano, chi è bello e ricco non fa pena a nessuno.
Quasi chiunque ha pietà di una pancia vuota, chiunque sarebbe d’accordo nel definirlo un vero problema.

Pochi si preoccupano di chi ha vuoto il cuore.

Tanto si può vivere in qualche maniera, anche senza nessuno che te lo riempia, il cuore…

Superò il ragazzo malmesso, superò la tentazione di buttarglisi accanto, lasciarsi cadere e lasciare che tutto andasse come voleva andare, cioè sempre nel peggiore dei modi.
Sospirò e si strinse nelle spalle.
Qualche centinaio di metri e avrebbe raggiunto la sua vettura.
Eccola là in fondo.
Naturalmente non era sua, ma del suo agente.
Quando veniva in città gliela metteva a disposizione.
Una leggera pressione del telecomando e le sicure scattarono morbide.
Nell’abitacolo s’accese un bagliore.
Si lasciò inghiottire dal globo di luce, buttò la borsa sul sedile vicino quello del guidatore.
Infilando le chiavi nel quadro lo sguardo cadde sul parabrezza.

Sotto al tergicristallo un foglietto ripiegato.
Una multa. La cosa la lasciava del tutto indifferente, pagava l’agenzia.
Un genere di contrattempi all’ordine del giorno.
Scese, prese il foglietto e prima di cacciarlo in borsa gli buttò un’occhiata distratta.

Non era una multa.
Il cuore mancò un colpo.
Solo due parole, scritte in penna, a stampatello.

DU HAST.

Un complice codice fra loro.

Quando si erano conosciuti, mentre le stava scattando le sue prime foto, c’era una canzone con quel titolo in sottofondo.
Le aveva detto di scegliere la musica che preferiva, lei aveva scelto quella.
Finito il servizio erano usciti insieme dallo studio e lei gli aveva chiesto:

“Sai cosa vuol dire nella mia lingua?”

“Lo so” aveva risposto sorridendo. “Du hast begli occhi, du hast belle gambe, du hast un bel viso, du hast un bel sorriso…”

Lei era arrossita.

Prima, mezza nuda davanti all’obbiettivo, non si era sentita a disagio. Era il suo lavoro.
Ma adesso, di fronte a quei complimenti, s’era scoperta indifesa.
Non c’era più la macchina fotografica a fare da scudo.
Non erano a una festa, contesto in cui lei sapeva benissimo come sbrigarsela in circostanze simili.

Erano solo due persone normali che camminavano per strada, vicine.

L’aveva invitata a cena, di cene ne erano seguite molte altre.
Continuava a chiedersi dove mai avesse sbagliato.
Come diamine fossero passati dal DU HAST – tu hai – al DU HASST – tu odi…

Quella canzone non poteva riascoltarla.

Era stata la profezia che si auto-avvera.

La sera che gli aveva chiesto di sposarla era precipitato tutto.

Che idea balorda, usare la canzone per chiedergli una cosa tanto importante…

Willst du bis der Tod euch scheidet treu ihr sein für alle Tage (1)?

Nein, aveva risposto lui.

E lei si era messa a ridere, il cuore che franava in un terremoto, di cui non si sarebbe letto sui giornali, ma avrebbe reso ugualmente necessaria una ricostruzione di anni e anni.
E poi avanti, col gusto masochistico degli innamorati che, quanto più si faranno male, tanto più s’illudono che saranno liberi, infine.

Willst du bis zum Tod, der scheide sie lieben auch in schlechten Tagen (2)?

Nein, aveva risposto di nuovo lui, stavolta una piega amara ai lati della bocca.

Non ricordava altro della serata, come non si ricorda nulla dopo uno scontro in macchina.
Non c’erano stati chiarimenti, non si erano più cercati.

Ora c’era solo un foglietto bianco che le tremava fra le mani.

Oltre lui, non c’era anima viva che sapesse lo speciale significato di quelle due parole.

Alzò lo sguardo al parabrezza: tutto fluttuava in un turbine acquoso, salato.
Come meglio poteva studiò il parcheggio, circospetta e timorosa.
Scese cauta dalla macchina, sentì che l’aria intorno era vuota di lui.
A volte poteva percepirne la presenza, se era abbastanza tranquilla da volerci provare.

Restò un minuto in attesa, il cuore contratto.
Due minuti. Cinque minuti. Non era più lì.

Aveva riconosciuto la targa.
Un quartiere quasi centrale, un lavoro di passaggio da quelle parti.
Risalì in auto.

Tu hai.

Così la vedeva lui.

Tu hai. Tu hai tutto.

Gioventù. Bellezza. Denaro. Successo…

Perché vuoi anche me? Per fartene cosa?

Sembrava la muta domanda del biglietto.

Perché sei il solo dono che vorrei dalla vita e i soldi non ti potranno mai comprare, pensò lei, una fitta al cuore, crollando con la fronte sul volante.


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(1) Vuoi tu finché morte non vi separi esserle fedele per sempre?

(2) Vuoi tu fino alla morte che separa, amarla anche nei giorni peggiori?

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Du hast – Patrizia Birtolo – (#RaccontiDiNATALE)
“Du hast”

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