“Chiaroscuri paterni”

di Daniele Semplici

Avevamo preparato tutto la sera prima per poter restare a letto un po’ di più. Come al solito, io mi ero svegliato prima, avevo preparato la colazione che le piaceva di più, di solito riservata alla domenica: pancake con la cioccolata e una tazza di latte caldo con la schiuma montata come quella del bar. Lei si era alzata velocemente, eccitata per questa nostra gita. Doc, come lo chiamavo io, mi aveva detto che mi avrebbe fatto bene stare all’aria aperta con lei, in mezzo alla natura.

Parcheggiammo l’auto all’inizio del sentiero. Ognuno aveva il suo zaino, il suo ovviamente più leggero, solo le cose che aveva ritenuto essenziali. Prima di tutto la sua borraccia d’acqua, poi il cellulare, che aveva ormai sostituito la macchina fotografica digitale, e un quadernino con la copertina colorata con una penna e una matita. Tra le pagine del quaderno avrebbe potuto conservare i fiori che avremmo trovato per poi lasciarli seccare. Le avevo fatto scoprire questo metodo da piccola e le era piaciuto, era un modo per conservare i fiori a lungo. Facemmo la prima foto all’inizio dell’escursione, volti sorridenti per l’inizio di una nuova giornata insieme. Lei mostrava fiera il suo bastone, un vecchio pezzo di legno che aveva trovato in un bosco quando lei andava ancora all’asilo e che da quel momento utilizzavamo per le nostre uscite. Per invogliarla a camminare, al rientro incidevo una tacca con un coltellino. Ne aveva davvero tante.

***

Era quasi un mese che non avevo quell’incubo. Lo so perché me lo segnavo in un’agenda. Era iniziato poco prima che mia figlia iniziasse la scuola. Doc diceva che non c’era un collegamento preciso. Secondo lui era rimasto lì nascosto da tempo e poi era venuto fuori da quel momento senza un particolare motivo. Mi fece l’esempio di un quadro attaccato ad una parete che cade improvvisamente, sarebbe potuto accadere in qualsiasi momento, tra settimane come tra mesi. Ma prima o poi sarebbe caduto. Di questo Doc era sicuro. Ero a letto, da bambino, in una camera buia. Vedevo solo uno spiraglio di luce provenire dalla porta accostata. Vedevo passare un’ombra lungo il corridoio, sapevo che era mia madre. Volevo provare a chiamarla ma non riuscivo. Sentivo che era al telefono. Mia madre chiamava il posto di lavoro di mio padre dicendo che anche quel giorno non si sentiva bene e non poteva andare a lavorare. Non appena abbassava la cornetta io mi svegliavo con il cuore che mi batteva forte, sembrava che volesse uscire fuori dal corpo.

***

“Babbo, ci fermiamo in quel prato? Ci sono dei fiori bellissimi.”

“Va bene ma non è molto che camminiamo, poi la prossima pausa sarà più lontana del previsto.” Al mio “va bene” era già corsa in mezzo al prato senza sentire il resto della frase. Mi ero riproposto di godermi la giornata e così l’assecondai. Il bianco delle margherite si mescolava con il giallo di altri fiori dei quali non ricordavo il nome. Colsi alcune margherite e la chiamai. Lei stava ammirando da vicino un’ape intenta a raccogliere il polline.

“Girati un attimo”, poi aggiunsi, “non preoccuparti, non ti faccio scherzi.” Lei sorrise.

Le misi alcune margherite negli spazi della treccia che le avevo fatto quella mattina.

“Ti stanno benissimo!”

“Ma io non riesco a vedermi”, si lamentò.

“Non preoccuparti, ti faccio una foto con il cellulare e ti potrai vedere.”

“Sì, è vero, mi stanno benissimo!”

Presi la margherita rimasta e la infilai in mezzo alla barba.

“Io come sto?”

Mi guardò perplessa come cercasse le parole da dire.

“Ho capito, ho capito. Non c’è bisogno che tu dica niente.”

E scoppiammo in una risata.

***

Dopo diverso tempo Doc mi disse che era necessario coinvolgere la mia famiglia per cercare di approfondire quel sogno. Si trattava di un vero ricordo? Mia madre non ne fu molto contenta, parlare di fronte a un estraneo della nostra vita non era proprio entusiasmante. Mio padre era morto da anni, lei era l’unica che potesse dargli una chiave di lettura. Io la ascoltavo raccontare, era un po’ tesa, come era normale che fosse. Muoveva le mani e si toccava il viso, spostava spesso lo sguardo verso una parete della stanza per non guardare direttamente Doc. Io le ero accanto, cercavo di non incrociare i suoi occhi per non metterla in imbarazzo. Mi tornò alla mente una storia che ogni tanto saltava fuori a casa mia, tra parenti, della quale si accennava soltanto senza mai parlarne apertamente. Tanto che non ero neanche sicuro che fosse accaduto davvero. Almeno fino al racconto di mia madre. Dopo alcuni anni dalla mia nascita a mio padre venne una forte depressione. In quel periodo il lavoro non andava bene, io iniziavo la scuola, avevo ancora tanti anni prima di diventare grande. Mio padre sentiva su di sé tutto il peso della famiglia, in particolare di avere un figlio da crescere. Tra i mille pensieri nella sua testa la notte non riusciva a dormire finché non crollava la mattina presto, sopraffatto dalla stanchezza e dal sonno. Ma a quel punto era impensabile alzarsi per andare a lavorare. Non se ne era parlato mai tanto in famiglia. Sembrava una cosa morta e sepolta ormai tanti anni fa. Quel problema, se così si può chiamare, scomparve come era venuto e la nostra vita familiare proseguì senza ulteriori scossoni.

***

“Babbo, io sono stanca. Voglio fermarmi. Ho caldo.”

Era una decina di minuti che non parlavamo. Io stavo camminando, un po’ perso nel paesaggio.

“Non manca molto. Vedrai che bello quando arriveremo in cima.”

Mi guardava poco convinta.

“E’ tanto che camminiamo, poi dobbiamo tornare indietro.”

“Dai, basta lamentarsi!” Mi spazientii. La rimproverai alzando la voce. Lei non si aspettava quel brusco cambiamento di tono e vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime. Alzai lo sguardo al cielo e feci un respiro cercando quella pazienza che non trovai. Se c’era qualcosa che non sopportavo erano le lacrime.

“No, dai, adesso ti metti anche a piangere!”

Lei mi guardava senza dire niente con lo guardo imbronciato e le lacrime che le scendevano lungo il viso.

Io feci qualche passo in avanti, mi sedetti e misi la testa tra le mani. Avrei voluto che uno di noi due sparisse da quel sentiero e maledissi l’idea di quell’escursione insieme.

“Babbo…” dopo qualche minuto sentii la sua voce che quasi mi risvegliò. “Babbo…”

“Vieni qui da me.”

Si avvicinò timidamente. Le sorrisi e allargai le braccia verso di lei. Le asciugai le lacrime con un fazzoletto di carta che avevo in tasca e le detti un bacio sulla guancia.

“Ho avuto un’idea che ti piacerà. Hai ragione, hai camminato tanto, ti meriti un premio. Adesso proverò a portarti un po’ sulle spalle, il sentiero adesso non è più in salita.”

“Sì, che bello!”

Riprendemmo il cammino con un passo più lento del previsto. Incrociammo una famiglia che stava scendendo. Ci scambiammo un saluto come d’uso tra le persone che si incontrano in montagna. Mi sembrò che l’uomo mi lanciasse un’occhiataccia. Mi ero quasi dimenticato di avere mia figlia sulle spalle, forse temeva che anche la sua gli facesse una richiesta del genere.

***

Doc era convinto che quel chiarimento di mia madre avrebbe posto fine a tutti i miei incubi. In realtà, paradossalmente, la situazione peggiorò. Si inserì nella mia mente il pensiero fisso che quello che era successo a mio padre accadesse anche a me. Mi ero convinto che prima o poi scattasse anche dentro di me una specie di interruttore e che anche io sarei caduto in uno stato di depressione. Iniziavo a temere fortemente che avrei messo in pericolo il futuro di mia figlia. Iniziai a guardarla in un altro modo rispetto al passato, come se un velo grigio fosse calato sui miei occhi. Decisi di fare in modo che si abituasse a stare senza di me, come se dovesse prepararsi all’arrivo di quel mio famoso “clic” interiore, quando avrei preferito starmene da solo con i miei pensieri e non avrei avuto la forza di alzarmi dal letto la mattina per affrontare una nuova giornata. Fu doloroso per entrambi. Sospesi le nostre letture insieme prima di dormire. Le dissi che stava crescendo e i grandi si addormentano da soli. Era, forse, il nostro momento più intimo della giornata. Ricordo le sue lacrime le prime sere, non ne capiva la ragione, c’era ancora tempo per diventare grandi.

***

“Adesso puoi scendere, credo che tu ti sia riposata. Mi sa che è l’ora di mangiare quei buonissimi panini che abbiamo preparato”, le proposi perché la schiena iniziava a farmi male.

“Siiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”, disse entusiasta.

Trovammo un posto all’ombra, stendemmo un telo e ci dividemmo i panini. Eravamo entrambi molto affamati.

“Non dobbiamo ripartire subito, vero?” chiese a voce bassa mia figlia quasi temendo di sentire la mia risposta.

“Un attimo…”

Muovevo la testa, aggrottavo le sopracciglia, alzavo gli occhi come se stessi facendo chissà quali calcoli a mente.

“Certo che possiamo riposarci quanto vogliamo!” Dissi all’improvviso sorridendole.

“Che bello!”

Mi sdraiai, guardavo le nuvole che si muovevano lente nel cielo. Sin da quando era piccola giocavamo a trovare le forme delle nuvole. Mi girai per chiamarla ma non lo feci. Si era spostata al bordo del telo e stava dando ad alcune formiche le briciole rimaste del panino. La lasciai fare, mi sembrava che si stesse divertendo.

Sentendomi muovere si girò verso di me.

“Mi piace poter aiutare qualcuno. Pensare che per noi sono solo briciole.”

“Per loro sei una specie di gigante buono. Se segui quelle che hanno preso una briciola, potrai scoprire dove hanno la tana ma non ti allontanare troppo.”

“Vado, mi porto dietro le briciole avanzate così le posso mettere davanti alla loro tana e loro faranno meno fatica.”

“Bella idea! Se potessero parlare ti ringrazierebbero.”

***

Ovviamente tutto accadde senza che me ne rendessi conto. Fu Doc che dopo analizzò tutto. Quella che lui chiamò la seconda fase arrivò una mattina d’inverno. Entrambi malati, la notte avevamo dormito poco, colpi di tosse e naso chiuso non ci facevano riposare. Mia figlia mi chiamava continuamente e alla fine decisi che sarebbe stato meglio per tutti e due dormire insieme nel lettone. Sentivo il suo respiro pesante. Aspettavo che le medicine facessero effetto così avremmo riposato un po’. Per mia figlia fu più veloce. A tratti russava. Mi girai dall’altra parte e mi rannicchiai vicinissimo al bordo del materasso. Per un attimo avrei voluto scomparire. Poi mi resi conto che avrei voluto che scomparisse mia figlia. Volevo sentire ancora una volta quella leggerezza che provavo prima di diventare padre. Non c’era più modo di riaverla indietro. Sentivo che si trattava ormai di qualcosa di perduto per sempre. Nel groviglio di pensieri notturni, alterati da febbre e medicinali, realizzai che non avrei avuto tutti questi problemi se non avessi avuto una figlia. Non avrei avuto timore che scattasse quel “clic” nella mia testa, non avrei avuto paure per un futuro più o meno lontano in quanto avrei dovuto pensare solo a me stesso. Chissà se anche per mio padre ero stato io la causa di quel periodo oscuro, solo lui avrebbe potuto dirmelo. In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per aver avuto il potere di far sparire qualcosa o, almeno, di poter sparire io.

***

Mi venne l’idea di prendere il quadernino di mia figlia nello zainetto per farle una sorpresa. Spesso le facevo qualche piccolo disegno con una dedica speciale, a lei piacevano tanto. Li nascondevo tra le pagine dei suoi libri, nell’astuccio di scuola o tra i suoi pupazzi. Mi guardai intorno convinto di vederla ma non c’era nessuno intorno a me. Mi alzai in piedi di scatto. Il lento muoversi delle nuvole mi aveva distratto, non ero in grado di dire quanto tempo fosse passato. Muovevo piano la testa cercando di mettere bene a fuoco tutto quello che avevo intorno, alberi, cespugli. Mia figlia aveva una maglietta rossa, lo ricordavo bene perché la sera prima avevamo scelto insieme le cose da mettersi. Non so se fosse il caldo, o il repentino passaggio dallo stare sdraiato per diverso tempo all’essere in piedi, ma sentivo che le forze mi stavano per abbandonare. Iniziai a chiamarla piano, non volevo spaventarla. Dopo pochi istanti alzai la voce perdendo qualsiasi remora, adesso avevo paura. Feci qualche passo verso la zona dove il bosco si faceva più fitto.

“Babbo, sono qua!”

Sentii la sua voce sulla mia sinistra. Era dietro un cespuglio.

“Che c’è? Ho trovato la tana delle formiche.”

Con il rosso della sua maglietta mi sembrò che tutto il mondo intorno a me acquistasse colore.

“Vieni, riprendiamo la nostra camminata.”

Cercai di andare avanti come se quella paura improvvisa non ci fosse mai stata.

“Dobbiamo proprio? Sono stanca.”

“Facciamo così: arriviamo in cima a questo sentiero, da lì c’è una vista spettacolare, e poi torniamo indietro. Va bene? E forse, dico forse, al rientro con la macchina potremmo fermarci alla gelateria. Dopo questa bella camminata ce lo siamo meritati un bel gelato. Che ne dici?”

“Siiiiiiiiiii…” Urlò. Corse sorridente verso di me.

Da lassù potevamo ammirare tutta la valle sottostante.

“Le persone là sotto sembrano piccole come quelle formiche che hai visto prima.” Dissi a mia figlia.

“Possiamo andare più avanti? Voglio vedere quanto siamo in alto.”

“Però stiamo attenti, mi raccomando. Dammi la mano, così ci teniamo.”

Ci avvicinammo a piccoli passi fino quasi al bordo della roccia. Le avevo lasciato la mano e adesso la tenevo stretta a me. Un leggero vento le scompigliava la frangia. Guardai giù, eravamo davvero in alto. Non c’era niente sotto di noi per tanti metri, in fondo delle rocce. Il vento si fece più forte. Non dicevamo niente. Per un attimo ebbi paura di quel vuoto sotto di noi. La strinsi ancora più forte e feci un passo indietro.

“Hai visto che valeva la pena di fare un po’ di fatica per arrivare fino quassù.”

Lei mi sorrise.

“Adesso un’ultima sorpresa e torniamo indietro.”

“Una sorpresa? Quale sorpresa?”

Aprii il mio zaino e presi una vecchia bandana rossa che avevo trovato a casa qualche tempo prima.

“In ricordo di questa bella camminata attacchiamo questa bandana ad un ramo di quel grande albero che c’è laggiù.”

“Ci possiamo scrivere i nostri nomi e la data di oggi?”

“Certo, tutto quello che vuoi.”

Mi prese la bandana dalle mani e corse allegra verso l’albero.

Arrivati sotto l’albero la presi in braccio per farla arrivare ad uno dei rami più alti.

“Mi raccomando quando fai il nodo non stringere troppo intorno al ramo, lasciamogli lo spazio per crescere.”

Non so se fosse quella pendenza più o meno marcata ma facemmo la strada del ritorno leggeri come se camminassimo su delle nuvole.

***

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Chiaroscuri paterni – Daniele Semplici – (Concorso Letterario #Ombra) – Lettera32 il Blog
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