“Arezzo: c’era una volta…”

Città: Arezzo

di Gabriella Paci

C’erano e ci sono nella zona vecchia della città di Arezzo, chiamata più elegantemente “Centro storico“ un intersecarsi di vie dal selciato consunto e dalle facciate stinte delle case, alcune delle quali ostentano un aspetto signorile, fregiandosi di decori di pietra o di portoni di foggia elegante, con battenti in ferro battuto che rappresentano fiori, zampe ungulate o teste di leoni e di sfingi.

Ma forse quello che più caratterizzava il centro storico, almeno dal punto di vista della vita cittadina, era la presenza negli anni 60/70 di due personaggi, chiamati, rispettivamente “Sputaci” e “Uomo d’oro”.

Il primo o meglio, la prima era una povera donna ormai molto anziana che viveva ai margini della società, derisa e sbeffeggiata da tutti, o quasi, i ragazzacci della città. La incontravi in piazza San Michele o sotto i portici, dove sostava in cerca di riparo.
Il suo nome? Credo che nessuno o quasi sapesse ormai più quale fosse, ma credo dovesse essere: Angiolina. Tale Angiolina, piccola minuta, infagottata in stracci sovrapposti sempre sudici e strappati, portava gonne lunghissime che coprivano gambe malferme sulle quali si dondolava come una matrioska, che non avesse una base stabile. E questo nonostante si appoggiasse ad un vecchio bastone. I capelli, palesemente tinti in mal modo di un colore scuro con la vernice da scarpe, rivelavano vistose ricrescite bianche, o meglio, giallo sporco, che, visto la trascuratezza del personaggio, non erano meno sporchi di tutto il resto.
Le dita, scheletrite e con unghie listate di nero, erano gialle di nicotina. Già, perché Angiolina fumava molto, praticamente quasi sempre. Raccoglieva, infatti, cicche e mozziconi di sigarette da terra che poi, con cura meticolosa, cercava di ricomporre in qualcosa che assomigliasse ad una sigaretta, adoperando anche carta raccolta da terra che potesse servire all’uso. Talvolta arrivava perfino a cercare di vendere quelle sue sigarette “artigianali”.
Ma perché veniva chiamata “Sputaci”, con questo nome così infamante? Sempre i giovinastri o, comunque, quei ragazzi la cui cattiveria era forse pari alla loro pocaggine, si incitavano a vicenda a… sputare sulla povera donna, da cui tale soprannome, con cui tutti o quasi, l’appellavano.
Le gettavano a terra, dopo averla beffeggiata ed offesa 5 o 10 lire, moneta equivalenti ai 5 o 10 centesimi attuali. Perché tanto disprezzo e derisione? Perché si diceva che Angiolina fosse stata, a dispetto del nome, una prostituta di grande disponibilità anche con chi aveva davvero poco da offrire ed era magari un barbone o poco più. Oramai fatta anziana e malferma, sola e senza dimora, la “sputaci” dormiva talora in un ospizio per poveri o talora all’aperto, dove capitava che potesse rintanarsi, come fanno le bestie braccate .
Di tanto in tanto andava a trovare le “amiche” che esercitavano ancora la professione, ma nessuno seppe mai dire, perché fosse stata sfrattata dal Bordello, anch’esso situato nel centro antico.
Angiolina si difendeva dagli assalti dei ragazzi con parolacce che suscitavano gli sghignazzi e gesti offensivi dei ragazzi stessi, che fingevano di avere timore del bastone, che lei faceva roteare per allontanarli ed intimorirli.
Negli anni 70 la Sputaci morì e c’era chi le attribuiva un’età e chi un’altra: fatto è, che la città perse per sempre un personaggio la cui fama è tuttora ricordata, tanto che una coppia di imprenditori ha voluto farle fare un piccolo monumento in resina e coccio, posto in una zona limitrofa di Arezzo e si vocifera che ne sarà realizzata un’altra addirittura ricoperta di lamina d’oro in un posto più centrale, uno di quelli insomma, che lei frequentava abitualmente.

Tutto d’oro era invece “l’uomo d’oro” che arrivava in città con la sua bicicletta tinta di porpora dorata, come pure gli abiti, il cappello e le scarpe. Anche il volto e le mani erano tinte d’oro. Non parlava con nessuno e non chiedeva la carità, ma si fermava, di tanto in tanto, nelle piazze e osservava i passanti.
Si diceva che il dolore per la perdita in guerra del figlio tanto amato, gli avesse fatto perdere il senno e che lui si vestisse così, proprio per aspettare ed essere dunque riconosciuto dal figlio. Infatti, qualche volta si colorava tutto di verde intenso e si metteva sotto i semafori.
Tuttavia il suo posto privilegiato era la stazione o gli incroci delle strade.
Si diceva che era un calzolaio, prima di essere “l’omino d’oro”.
Ricordo che avevo (ero davvero molto piccola) timore che quel personaggio, fuori di testa, finisse poi per commettere qualche azione riprovevole o che cominciasse a urlare… Invece era un uomo disperato e solo: nessuno mai lo aveva visto in compagnia di qualcuno e nessuno, credo, sapesse di preciso da dove veniva e dove andava quando si faceva sera. Anche a lui, Arezzo ha dedicato una statua, più o meno nella zona di quella della Sputaci, perché, se è vero che ogni città ricorda i suoi uomini illustri, deve serbare la memoria anche degli umili, di coloro che si sono comunque distinti e che hanno fatto il folclore della città.

L’ultimo personaggio che voglio ricordare è la “Maria”: una donnina di mezza età piccola e svelta come una faina.
Arrivava nella Piazza Guido Monaco o al “Prato”, due parchi pubblici frequentati da ragazzi di varia età, con un carrettino artigianale che, forse, era stato una volta una credenza, poi rimaneggiata, verniciata e fornita di ruote per il suo spostamento.
Il carrettino era per i ragazzi, una meta ambita poiché conteneva “chicchi” che solleticavano gli occhi e il palato come “Boni-duri”; orribile caramelle bicolori, tipo gesso, infilate su uno stecco per essere leccate a poco a poco; le “mele di Pippo”; mele di seconda scelta, ma rivestite di uno spesso strato di zucchero color rosso intenso e infilzate su un lungo stecco; rotelle di liquerizia; animaletti di pasta gommosa o di liquerizia, posti in un barattolo da scegliere a soggetto; e poi: bustine di semi salati, noccioline, ceci arrostiti e…. magnesia.
Acquistare 10 lire di magnesia significava avere il bicchierino di plastica con un cucchiaino di riccioli di magnesia da far sciogliere in acqua, per gustare poi una bevanda effervescente e biancastra. E che dire delle Pèsche? Bustine bianche chiuse con la spillatrice, che contenevano una sorpresa, che poteva variare dall’automobilina al tegamino in plastica. Una specie di sorpresa dell’ovino Kinder ma… la consolazione del cioccolato che, invece, semi-sfatto nella sua carta metallizzata, acquistavi a parte, sempre con 10 o 20 lire al pezzo a seconda della dimensione.
La “Maria” era inflessibile con tutti: niente sconti né merce data a credito. Eppure, quelle “leccornie” da pochi spiccioli aprivano ai ragazzi le porte del gusto e nulla ha più avuto il gusto dell’acqua con la magnesia e delle rotelle di liquerizia, che si snodavano piano piano, lasciando bocca e lingua nere di colorante e avvolte da una parziale anestesia…

Un tempo magico che ha fatto di Arezzo un piccolo teatro, dove certi personaggi potrebbero essere, anche oggi, i protagonisti di una commedia…

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