di Vittorio Sossi
Si erano messi in viaggio una notte. Avevano visto quel punto luminoso in cielo, avevano abbandonato le attività quotidiane e avevano cominciato a seguirlo: uno da sud, uno da est e uno da ovest. Avevano lasciato le loro tribù convinti che fosse la cosa giusta da fare, senza un pensiero preciso, seguendo un istinto primordiale, salutati dagli sguardi dei compagni carichi di speranza per un futuro migliore, in quel mondo che si stava disfacendo.
Durante l’incedere tra felci e gimnosperme si erano ritrovati. Certo c’era stato un momento teso, uno dappresso all’altro, vertici di un triangolo, che emanava una tensione solida. L’istinto interiore che li spronava ad agire, ad aggredire o fuggire, ma poi quel lunghissimo momento statico, si era rimesso in moto, con un esito inaspettato. Si erano guardati, avevano rivolto lo sguardo al cielo, si erano guardati di nuovo, avevano compreso di avere uno scopo comune e avevano deciso che, forse, quel lungo viaggio era meglio farlo in compagnia.
Il destino li aveva fatti incontrare e non era una buona cosa disobbedire al suo segno imperscrutabile: quello che li aveva radunati e che camminava lento sulla sfera celeste. Avevano proseguito, uno a fianco all’altro, ognuno con il suo dono stretto al corpo.
Uno aveva scavato un tronco per estrarre una resina balsamica, l’altro aveva raccolto bacche e radici dal profumo inebriante e il terzo aveva dissotterrato una roccia, che si illuminava di un giallo splendente quando colpita dalla luce, lanciando bagliori che quasi ipnotizzavano per quanto erano belli.
Da allora avevano marciato giorno e notte, fino a quando la vegetazione sofferente non era stata incenerita dal deserto, l’acqua, che scorreva copiosa, non si era ritratta in piccole pozze sempre più rade e la sabbia non aveva iniziato a sprofondare i passi, affaticando ogni movimento.
Sulle loro teste il punto luminoso si era sfrangiato, circondato di raggi e allungato in una scia, che puntava nella direzione nella quale si erano incamminati e li confortava e li convinceva di aver preso la decisione giusta.
Si fermavano per pasti frugali, si coricavano sulla nuda terra per dormire, ma la cometa, quella nuova stella apparsa all’improvviso, era sempre lì in cielo. Di giorno si scontrava con la luce invadente del sole, che cercava di soffocarla, ma riusciva solo a rinvigorirla; di notte esprimeva tutto il suo splendore su un tessuto di stelle sempre più insignificante, deboli fiammelle che sembravano allontanarsi, mentre la stella infuocata sembrava sempre più vicina, gigante, maestosa.
E senza un verso o un lamento avanzavano affondando nella sabbia, sorretti dalla convinzione che avrebbero assistito a un evento che avrebbe cambiato il mondo conosciuto, lo avrebbe riacceso di vita, avrebbe portato una nuova speranza.
Uscirono dal deserto e affrontarono terreni scoscesi che ospitavano una vegetazione selvaggia e ancora rigogliosa. Ognuno sfruttava le sue qualità a beneficio degli altri.
Il primo, quello che aveva il collo più lungo, poteva guardare più lontano e sceglieva sempre il percorso più accessibile.
Il secondo, protetto da una corazza impenetrabile, distruggeva gli ostacoli, caricandoli a testa bassa. Il terzo, armato fino ai denti, sterminava i pochi esseri viventi che osavano mettersi sulla loro strada, facendoli a pezzi e brandelli, che sparpagliava nell’aria con una furia che atterriva persino i suoi compagni di viaggio.
Quasi allo stremo giunsero davanti a un golfo meraviglioso.
L’aria era carica di un silenzio innaturale e l’acqua di un blu profondo rifletteva la luce della cometa, con un’intensità angosciosa, quando un rombo prima lontano e poi assordante riempì lo spazio e liberò tutte le loro paure.
Alzarono lo sguardo al cielo e restarono immobili, consapevoli che non c’era alcun rifugio possibile. La stella era entrata nel cielo, mangiava l’aria e puntava verso di loro. Era gigantesca, un globo incandescente, che precipitava e incarnava le loro paure più ataviche, fuoco, incendio, calore, morte. In quel golfo sulla costa di quello che, milioni di anni dopo, sarebbe stato chiamato Messico, il triceratopo, il brontosauro e il tirannosauro capirono che il loro tempo era finito. Lasciarono cadere gli inutili e insignificanti doni a terra: l’oro, l’incenso e la mirra.
Il presagio si era concretizzato: annunciava sì l’avvento di un mondo nuovo, ma non ci sarebbe stato posto per loro.
Si addossarono l’uno all’altro e attesero la fine.
Un finale davvero a sorpresa, che arriva inaspettato e lascia sconcertati: mi ero davvero immaginata il viaggio dei Re Magi (uno spunto di immedesimazione che ho sfruttato anch’io in passato) e solo nelle righe ho capito che non erano loro i protagonisti. Complimenti!